Negli anni Settanta successero molte cose, e anche molte “non” successero. Già da tempo i Paesi produttori di petrolio, dopo la rottura delle trattative volte a ottenere una revisione dei prezzi, stavano mettendo in atto una drastica riduzione delle forniture, in questo modo obbligando chi aveva necessità di petrolio a farne a meno o pagarlo a prezzi esorbitanti. L’Italia era completamente dipendente dall’estero per i rifornimenti di carburante e soggetta alle grandi compagnie americane e inglesi. Non era stata mai adottata una politica che permettesse di studiare fonti energetiche alternative, né una strategia nazionale, tanto che l’intera rete di importazione, raffinazione e distribuzione della principale forza motrice del paese era in mano a privati. Quando nell’ottobre del 1973 scoppiò la quarta guerra arabo-israeliana (“la guerra del kippur”) il petrolio divenne una formidabile arma nelle mani del fronte arabo, che lo usò per fiaccare la solidarietà internazionale verso Israele. Chi ne fece maggiormente le spese furono i paesi totalmente dipendenti dall’estero come l’Italia. Il prezzo del petrolio greggio andò alle stelle, quadruplicandosi, e con esso anche quello di tutte le merci derivate dal petrolio (carburanti, lubrificanti, fertilizzanti, detersivi, cosmetici, medicinali, materie plastiche, pneumatici, coloranti e vernici, fibre sintetiche) o dal petrolio trasportate sui mercati, ossia, in Italia, quasi tutto. La bilancia dei pagamenti (il saldo tra importazioni ed esportazioni) raggiunse in nove mesi un deficit dieci volte maggiore di quello registrato nel corrispondente periodo dell’anno precedente. I debiti aumentarono in maniera vertiginosa e in sette mesi la sola bilancia agroalimentare fece registrare una perdita di oltre mille miliardi di lire. Furono tempi pesanti, duri, difficili. Il prodotto lordo calò, diminuirono gli investimenti, il distacco tecnologico dall’estero si fece sempre più profondo.
A proseguire sulla strada dell’austerità anche nel 1974 fu soltanto l’Italia: entro maggio gli altri Paesi si erano rimessi in corsa, magari accettando consumi energetici superiori ma puntando, per tornare ad essere competitivi, su una migliore produttività e più raffinate specializzazioni. D’altronde i risparmi derivanti dai divieti si rivelarono davvero irrisori: un tre per cento di consumo di benzina in meno contro il “previsto” 20. Pesanti invece le ripercussioni sul comparto commerciale, turistico e dello spettacolo, messi letteralmente al tappeto dalle chiusure anticipate e dai divieti di circolazione.
In questo marasma, che sfocerà di lì a qualche anno in una crisi ancora più profonda, l’industria automobilistica tenne meglio del previsto, con una produzione annua di circa un milione e mezzo di vetture, a seconda degli anni. Visto i presupposti, risultati più che positivi. Si affacciarono sul mercato, salutati da grande favore, piccoli modelli come la Fiat 127, con la quale la casa torinese sposava il criterio del “tutto avanti”; a cui seguiranno le utilitarie Fiat 126 e Fiat Panda, destinate entrambe a lunghissima carriera, in particolar modo quest’ultima. Prese sempre più piede la vettura diesel, grazie al fatto che allora il carburante diesel era molto più conveniente della benzina. Non un argomento da poco, in un paese che doveva fare i conti con un’inflazione al 23%.