Il 20 febbraio 1909 il “Figaro” di Parigi pubblicava l’atto di “Fondazione e Manifesto del Futurismo” di Filippo Tommaso Marinetti, ripreso sul numero di febbraio-marzo dello stesso anno dalla rivista “Poesia”, diretta dallo stesso Marinetti.
Nasceva ufficialmente il movimento letterario che voleva scardinare non solo la poesia ma le arti tutte, un movimento a cui il suo fondatore voleva in un primo tempo dare il nome di “Dinamismo”.
Dinamismo, Futurismo. Nomi indicativi di un anelito al muoversi incessante verso una frontiera temporale pronta a spalancarsi per accogliere espressioni nuove dell’ingegno artistico, sdegnose della compostezza classica, delle forme metriche consuete, che sovvertiva regole sintattiche e grammaticali.
“Parole in libertà” volevano i futuristi e “paroliberi” essi stessi si definivano.
Era il “mondo moderno” che li attraeva con la forza magnetica delle sensazioni nuove che esso emanava, con le nuove espressioni del vivere quotidiano, con il trionfo inarrestabile della tecnica e della velocità. E tutto, secondo i futuristi, doveva adeguarsi, uniformarsi, in “tempo reale” come diremmo oggi, alle nuove leggi del tempo e dello spazio, due dimensioni eterne e sulle quali l’uomo era finalmente riuscito a mettere la sua prepotente ipoteca: “Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi – teorizzava Marinetti – viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo creato l’eterna velocità onnipresente”.
“… noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici.”
Marinetti ed i suoi amici avevano vegliato tutta la notte, a Parigi. Avevano discusso tra di loro, quasi all’infinito, “ai confini estremi della logica”, raccogliendo pensieri, parole e scritti, anzi “frenetiche scritture”, su quelle loro nuove teorie che erano “sentinelle avanzate” di una visione rivoluzionaria.
Poi, d’un tratto, udirono il ruggito degli automobili famelici venire su dalla strada, fin dentro le loro finestre.
“Andiamo, diss’io; andiamo, amici! Partiamo!”.
“Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti. Io mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio stomaco”.
Nel suo Manifesto del Futurismo, Marinetti aveva scritto queste frasi.
Aveva scelto l’automobile, la macchina, come simbolo eccelso di quella libertà a cui anelava. La macchina che dapprima egli identifica addirittura con una bara in cui si cala come un cadavere, ma che poi, una volta dentro, è capace di resuscitarne spirito e corpo, sul cui destino tuttavia incombe la minaccia della morte in costante agguato.
Quella “lama di ghigliottina” che, a non dominarla, potrebbe tagliare il filo della vita come sapeva fare Atropo, la Moira (una delle tre Parche), mitologica dea-vegliarda “che non si può evitare”.
Ruggiscono gli automobili famelici. Hanno fame di strada, di spazio, di velocità; ruggiscono rabbiosi (gli ancora maschili ordigni meccanici) perché la loro voce si possa sentire chiara e forte come un ammonimento imperioso a voler essere guidati.
E sono “belve sbuffanti”, creature selvagge e insofferenti, che non esiterebbero a divorare chiunque se non venissero placate dalla mano umana che ne accarezza, con cautela ma anche con consapevole sicurezza, i “torridi petti”. Quei cofani lucenti quasi arroventati dal calore crescente dei mille scoppi a stento repressi dentro possenti motori.
E partono, Marinetti ed i suoi amici visionari di un mondo nuovo, partono in una corsa pazza sulle loro (anzi: sui loro!) automobili. E’ una corsa breve che termina follemente, come follemente era cominciata: in un fossato. Fortunatamente senza catastrofiche conseguenze.
Il poeta si rialza, inebriato da quell’esperienza scomposta e … compone.
Il suo “Manifesto” diventa decalogo ed ancora “ … col volto coperto dalla buona melma … noi, contusi e fasciate le braccia, ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra”.
Agli uomini “vivi”, non la “fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii”!
“Noi affermiamo – al 4° comandamento – che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo … un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”.
La Vittoria di Samotracia. Cosa può esserci di più bello ed ammirato al mondo di quel monumento in marmo di Paros, esposto al Louvre. E’ la bellezza classica, immortale, che una ignota mano d’artista seppe eternare quasi 200 anni prima di Cristo. La Nike, personificazione della vittoria, raffigurata con le ali aperte, mentre sta per protendersi in volo con impeto.
Nike, figlia del Titano Pallante e di Stige (regina dell’oltretomba), creatura di una stirpe divina antecedente persino agli dei olimpici.
Quella statua venne ritrovata sull’isola greca di Samotracia, nell’alto Egeo, nel 1863, priva di braccia e di testa (soltanto una mano fu recuperata nel 1950): doveva essere collocata sulla prua di una nave da battaglia, che lei, Nike, avrebbe dovuto condurre sempre al trionfo sui nemici. Alta 2,75 metri, adorna di un drappeggio quasi barocco, di sublime fattura, è una delle opere più importanti e sensazionali di tutta la produzione plastica ellenica.
Eppure, Marinetti la declassa a seconda meraviglia del mondo, la prima essendo, a suo dire, la macchina automobile. Il prodotto complesso dell’ingegno umano, il veicolo a motore, che, in quel 1909, è ancora in cerca di una sua identità estetica in grado di differenziarlo definitivamente dal carro, dalla carrozza a trazione animale da cui inesorabilmente discende. Il suo corpo continuerà a chiamarsi “carrozzeria”, ma negli anni che verranno si perderà via via memoria di quell’ascendenza e le forme dell’automobile si moltiplicheranno, si affineranno, si proietteranno verso scenari in costante, inarrestabile mutamento.
Ma su tutte le automobili, una soltanto, precisa Marinetti, è più bella della Nike: la macchina da corsa. Un automobile ruggente, una creatura felina pronta al balzo e minacciosa, ma che sul dorso (cofano) ha innestati dei serpenti (tubi di scappamento) dall’alito esplosivo. Una sorta di Chimera, mostro della mitologia greca, figlia di Tifone e di Echidna, poi uccisa da Bellerofonte, con corpo e testa di leone, una seconda testa di capra sporgente dal dorso e la coda costituita da un serpente.
“… che sembra correre sulla mitraglia …”.
Anche Giovanni Nuvoletti, nel suo romanzo “Un adulterio mantovano” (Mondadori, 1981) riprende, alla pari, le parole di Marinetti: “Provava la nuova bellezza del mondo, la conquista della velocità, e il mostro ruggente, adorno di tubi come serpenti, pareva correre sulla mitraglia”.
L’automobile di cui narra Nuvoletti è “una stupenda Lancia ultimissima”, quasi certamente una Theta del 1913, visto che la vicenda si svolge nella primavera del 1914, alla vigilia della Grande Guerra. Una vettura di quasi 5 litri di cilindrata, capace dei 120 orari, un prodotto della Belle Epoque in cui “un’Italia dallo stile dannunziano celebra i suoi riti di società nella campagna mantovana”, come ci dice Paolo Malagodi nel suo “Autostorie”, Il Sole 24 Ore, giugno 1999.
La mitraglia, un altro simbolo per eccellenza, oltre all’automobile, richiamato dai Futuristi. E non a caso.
Come l’automobile irrompe nella storia del mondo per mutarne i destini, così la mitraglia (trice) cambia il corso delle guerre prossime venture: quella combattuta in Libia, quella definita “Grande”, quelle coloniali africane.
Nel suo poema ispirato da un episodio della guerra libica, “Battaglia. Peso + Odore”, il parolibero Marinetti scriveva: “ … Tintinnio zaini fucili zoccoli chiodi cannoni … mitragliatrici = ghiaia + risacca + rane Tintinnio zaini fucili cannoni ferraglia … polvere eroismo tatatata fuoco-di-fucileria pic pac pun pan lana-fulva mitragliatrici-raganelle-ricovero-di-lebbrosi …” ecc.
Concepita, come altre innumerevoli innovazioni ed invenzioni, da Leonardo da Vinci, la mitragliatrice moderna fu brevettata il 4 novembre 1862 (Marinetti nascerà quattordici anni dopo) da un medico americano, Richard Gatling.
L’aveva ideata per “scopi umanitari”. Durante la Guerra di Secessione, nella quale Gatling era schierato con i “nordisti”, visto l’alto numero di feriti, difficilmente curabili, il buon dottore aveva pensato ad un’arma capace di porre termine ai conflitti bellici in modo rapido e senza lasciare troppi invalidi. Un po’ come accadrà con la bomba atomica: uno strumento micidiale, utilizzabile da pochi soldati per annientare gli eserciti nemici, rapida e in grado di porre fine alla guerra subito o presto, senza ulteriori spargimenti di sangue.
La mitraglia, come l’automobile, modifica i tempi, modifica i modi, cambia la maniera di pensare e di vivere (o di morire).
L’automobile incarna, nella visione futurista di un secolo nuovo, una bellezza inedita, la bellezza della velocità.
Cos’è la velocità e che cosa c’è di bello in essa?
Orio Vergani, nel “Ricordo di Nuvolari”, Rivista Pirelli n. 4, 1954, riporta le parole del “mantovano volante”: “C’era la luna e, nella corsa, si facevano sempre più rapidi i passaggi dall’ombra degli alberi alle strisce del chiarore lunare: uno scatto sempre più rapido, sempre più precipitoso, fino a diventare vertiginoso, come il colpo a ghigliottina dell’otturatore di un obiettivo da macchina cinematografica. Questa era la velocità … Avevo tredici anni, i pantaloni corti, le ginocchia nude, i piedi nei sandali”. Era il 1905.
Anche il mitico Tazio richiama, come Marinetti, l’immagine della ghigliottina.
Quello strumento di morte inventato, come la mitragliatrice, da un dottore, il francese Guillotin, che nel 1792 ne propose l’adozione all’Assemblea Costituente, in piena Rivoluzione, per rendere meno dolorose e più veloci le esecuzioni capitali.
Ricorre il desiderio umano di uccidere presto e bene, di portare la morte rapida, che non lasci strascichi, che annulli la possibilità di mantenere, sia pure per breve tempo, tracce destinate a diventare memoria collettiva, ingombrante e fastidiosa memoria.
“Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni genere …”, proclamava il vate del Futurismo. Teorizzava la distruzione della memoria ed aggiungeva: “Perché dovremmo guardarci alle spalle?”.
Torna all’automobile, Marinetti, quando inneggia “all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita”.
Il nostro pianeta come una macchina da corsa, in gara perenne su un circuito da cui non potrà mai uscire, ma sul quale non potrà neppure fermarsi mai; pilotata da un essere umano che impugna il volante, un uomo-dio padrone e dominatore della sua macchina-terra, di fronte al quale “devono prostrarsi le forze ignote”.
E’ un delirio di onnipotenza finalmente raggiunta, conquistata, agognata da sempre e che finalmente, ora, l’uomo può spudoratamente sfoggiare proprio grazie a quel motore a scoppio che sembra averlo liberato per sempre dalle catene del tempo.