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FERVORE MECCANICO DEL NOVECENTO

 

Azione, velocità, progresso, movimento, slancio verso il futuro: questi i capisaldi di un movimento letterario ed artistico che rivoluzionò le arti in Europa all’inizio del secolo e che credeva talmente nel futuro da chiamarsi “futurismo”. Proclamava la necessità di un rinnovamento radicale in tutti i campi del vivere, predicava la rottura con la tradizione, ma si scagliava anche contro la filosofia, il costume, la politica, esaltando gli aspetti del progresso, della velocità, della simultaneità, ed anche della competitività e dell’aggressività, tanto da definire la guerra “igiene del mondo”. Fu una rivoluzione, nel campo dell’arte, a cui aderirono, lasciandoci opere meravigliose, una quantità di artisti e letterati italiani: Marinetti, Papini, Soffici, Palazzeschi, e poi Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, e più tardi Depero, Fillia…

 

Il 20 febbraio 1909 il “Figaro” di Parigi pubblicava l’atto di “Fondazione e Manifesto del Futurismo” di Filippo Tommaso Martinetti. Nasceva ufficialmente il movimento letterario che voleva scardinare non solo la poesia ma le arti tutte, un movimento a cui il suo fondatore voleva in un primo tempo dare il nome di “Dinamismo”.

Dinamismo, Futurismo. Nomi indicativi di un anelito al muoversi incessante verso una frontiera temporale pronta a spalancarsi per accogliere espressioni nuove dell’ingegno artistico, sdegnose della compostezza classica, delle forme metriche consuete, che sovvertiva regole sintattiche e grammaticali. “Parole in libertà” volevano i futuristi e “paroliberi” essi stessi si definivano.

Era il “mondo moderno” che li attraeva con la forza magnetica delle sensazioni nuove che esso emanava, con le nuove espressioni del vivere quotidiano, con il trionfo inarrestabile della tecnica e della velocità. E tutto, secondo i futuristi, doveva adeguarsi, uniformarsi, in “tempo reale” come diremmo oggi, alle nuove leggi del tempo e dello spazio, due dimensioni eterne e sulle quali l’uomo era finalmente riuscito a mettere la sua prepotente ipoteca.

Nel suo Manifesto del Futurismo, Marinetti aveva scelto l’automobile, la macchina, come simbolo eccelso di quella libertà a cui anelava. La macchina che dapprima egli identifica addirittura con una bara in cui si cala come un cadavere, ma che poi, una volta dentro, è capace di resuscitarne spirito e corpo, sul cui destino tuttavia incombe la minaccia della morte in costante agguato.

“Noi affermiamo – al 4° comandamento – che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo … un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”.

La Vittoria di Samotracia. Cosa può esserci di più bello ed ammirato al mondo di quel monumento in marmo di Paros, esposto al Louvre. E’ la bellezza classica, immortale, che una ignota mano d’artista seppe eternare quasi 200 anni prima di Cristo. La Nike, personificazione della vittoria, raffigurata con le ali aperte, mentre sta per protendersi in volo con impeto, figlia del Titano Pallante e di Stige (regina dell’oltretomba), creatura di una stirpe divina antecedente persino agli dei olimpici.

Quella statua venne ritrovata sull’isola greca di Samotracia, nell’alto Egeo, nel 1863, priva di braccia e di testa (soltanto una mano fu recuperata nel 1950): doveva essere collocata sulla prua di una nave da battaglia, che lei, Nike, avrebbe dovuto condurre sempre al trionfo sui nemici. Alta 2,75 metri, adorna di un drappeggio quasi barocco, di sublime fattura, è una delle opere più importanti e sensazionali di tutta la produzione plastica ellenica.

Eppure, Marinetti la declassa a seconda meraviglia del mondo, la prima essendo, a suo dire, la macchina automobile. Il prodotto complesso dell’ingegno umano, il veicolo a motore, che, in quel 1909, è ancora in cerca di una sua identità estetica in grado di differenziarlo definitivamente dal carro, dalla carrozza a trazione animale da cui inesorabilmente discende. Il suo corpo continuerà a chiamarsi “carrozzeria”, ma negli anni che verranno si perderà via via memoria di quell’ascendenza e le forme dell’automobile si moltiplicheranno, si affineranno, si proietteranno verso scenari in costante, inarrestabile mutamento.

Ma su tutte le automobili, una soltanto, precisa Marinetti, è più bella della Nike: la macchina da corsa. Un’ automobile ruggente, una creatura felina pronta al balzo e minacciosa, ma che sul dorso (cofano) ha innestati dei serpenti (tubi di scappamento) dall’alito esplosivo.  Una sorta di Chimera, mostro della mitologia greca, figlia di Tifone e di Echidna, poi uccisa da Bellerofonte, con corpo e testa di leone, una seconda testa di capra sporgente dal dorso e la coda costituita da un serpente.

L’automobile incarna, nella visione futurista di un secolo nuovo, una bellezza inedita, la bellezza della velocità.

Il nostro pianeta come una macchina da corsa, in gara perenne su un circuito da cui non potrà mai uscire, ma sul quale non potrà neppure fermarsi mai; pilotata da un essere umano che impugna il volante, un uomo-dio padrone e dominatore della sua macchina-terra, di fronte al quale “devono prostrarsi le forze ignote”.

E’ un delirio di onnipotenza finalmente raggiunta, conquistata, agognata da sempre e che finalmente, ora, l’uomo può spudoratamente sfoggiare proprio grazie a quel motore a scoppio che sembra averlo liberato per sempre dalle catene del tempo.

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