La “Seven”, progettata e costruita da Lord Herbert Austin e lanciata nel 1923, è stata una delle più popolari vetture utilitarie degli anni Venti e Trenta. Sembra che potesse percorrere 20 chilometri con un litro di benzina e costava appena 165 sterline, un terzo rispetto al prezzo di altre piccole auto inglesi. Rimase in produzione fino al 1939 e fu costruita in 375.000 esemplari. Da notare il tetto apribile scorrevole.
Dono di Gianfranco Moncalvi, Pavia
Motore: 4 cilindri
Cilindrata: 748 cc
Potenza: 13 CV a 2500 giri/min.
Velocità: 70 km/h
Peso 280 kg (autotelaio)
Herbert Austin, il “Padre dell’industria Motoristica britannica”, come era affettuosamente chiamato, diventato Sir nel 1917 e Lord nel 1936, non era soltanto il fondatore della omonima casa automobilistica inglese, ne era l’anima, il capo, l’assoluto accentratore. Ciò che diceva era legge, nel bene e nel male, e nel primo dopoguerra le cose andavano notevolmente male. L’azienda, da lui fondata nel 1905 a Longbridge, nei pressi di Birmingham, aveva avuto uno sviluppo vertiginoso già fin dai primi anni: nel 1910 vi lavoravano circa 1000 operai, e si rese necessario un turno notturno. Si mirava ad un volume produttivo di 1000 vetture annue, e a tal fine si intrapresero ulteriori notevoli ampliamenti. Gli investimenti necessari però resero impossibile l’autofinanziamento, e nel febbraio del 1914, a soli sei mesi dallo scoppio della grande guerra, le azioni della Austin furono offerte sul mercato finanziario, un’operazione che permise di portare il capitale alla cifra di 250.000* sterline, dalle 5.000 del capitale iniziale. Dall’agosto di quell’anno la produzione di vetture fu quasi abbandonata e si avviò una frenetica produzione di munizioni. Gli stabilimenti furono in pratica monopolizzati dalla produzione bellica, e questo nonostante l’istintivo conservatorismo del Ministero della Guerra, più portato ad appoggiarsi, per le commesse militari, agli abituali fornitori. Il nome di Austin, però, costituiva un’egida di assoluta garanzia, e i numeri lo dimostrano. Nei quattro anni di guerra la Austin produsse otto milioni di granate, 2000 aeroplani, 2500 motori aeronautici, 2000 autocarri, grazie al lavoro di circa 22.000 dipendenti, prevalentemente donne. La fabbrica di Longbridge fu costretta a triplicare i fabbricati e le attrezzature, oltre ad intensificare i turni. Il termine delle ostilità, però, pose una brusca fine alla serratissima produzione militare, e iniziò il periodo della conversione. Fu proprio questa a rivelarsi molto più complicata del previsto. Le commesse militari cessarono quasi da un giorno all’altro. Tutti i macchinari e la stessa ingigantita struttura parvero di colpo inutili e sovradimensionati. Certo, Austin aveva pensato già fin dal 1917 ad un modello per la produzione civile, la Twenty, una vettura da 20 CV concepita secondo le più recenti tendenze costruttive americane ma ci fu un momento in cui tutti gli sforzi parvero inutili. L’emorragia di denaro richiesto dalla riconversione sembrava inarrestabile, e si dovette ricorrere addirittura all’intervento del Commissario giudiziale in funzione di Amministratore. Si arrivò al punto in cui sia l’azienda sia il suo patrimonio personale erano a zero, ad un passo dalla bancarotta, con la maggior parte degli investimenti ormai pari a carta straccia, debiti che si accumulavano e l’insolvenza alle porte.
Non furono le banche a salvarlo, ma gli amici, quella della sua cerchia più stretta, che intervennero con aiuti finanziari, forse toccati da una vicenda che non era soltanto industriale ma anche umana (tra l’altro Austin aveva perso in guerra il suo unico figlio maschio, Vernon). Fu decisiva, per la salvezza dal baratro, la scelta di concentrarsi su un unico modello, cosa che Austin fece inizialmente proprio con la 20 CV. Ma ciò che si rivelò altrettanto, se non più, importante, fu l’idea di progettare e produrre macchine più piccole. Nel 1921 era stata presentata la Twelve, una 12 CV versione ridotta della Twenty, che ebbe tanto successo da essere adottata dal 90% dei taxi londinesi e divenire così parte integrante del paesaggio urbano della capitale. Ma a salvare definitivamente l’azienda fu la nascita della piccola, piccolissima “Austin Seven”.
Alla base del progetto, da attribuirsi interamente a Sir Herbert Austin, sembra vi sia stata Lady Austin, che ne suggerì l’idea al marito, in quelle rare volte in cui uscivano insieme a passeggio. “Guarda quei poveracci – indicando gli infelici proprietari di sidecar e biciclette a motore – per l’amor del cielo, con tutta la tua intelligenza non puoi far qualcosa per loro e inventare una roba che li protegga dalla pioggia e dal freddo?”. L’idea fu immediata: progettare qualcosa di concorrenziale rispetto ai cycle-car, che in Gran Bretagna stavano spopolando grazie al loro basso costo di acquisto e di esercizio, ma che erano ben lontani da presentare le caratteristiche, le prestazioni e le comodità di una vera vettura. Producendo un’auto in miniatura, leggera, affidabile e maneggevole, il pensiero di Austin era anche quello di coinvolgere il pubblico femminile, ancora in difficoltà a prendere la patente per l’oggettiva durezza della guida. Le vetture in circolazione all’epoca erano indubbiamente difficili da avviare, pesanti di sterzo, dure di freno e di frizione, e per una donna non era facile. La Austin Seven si proponeva di risolvere in un colpo solo tutti questi problemi.
Inizialmente, i disegni preliminari di Herbert non furono presi sul serio dai suoi collaboratori, propensi a considerare il nuovo veicolo poco più di un giocattolo e che gli fecero una durissima opposizione in seno al Consiglio di Amministrazione. Ma Austin, a dispetto di tutte le critiche, si incaponì. Non per niente si era chiuso nella sala del biliardo per sei mesi, insieme ad un giovane disegnatore tecnico cui versava lo stipendio di tasca propria, tra la costernazione di tutti i direttori, alcuni dei quali gli davano del matto. Arrivò a brevettare provvisoriamente a proprio nome le caratteristiche salienti del nuovo progetto, in modo da poter prospettare ai propri amministratori la possibilità di realizzarla e commercializzarla sotto un nuovo marchio. Voleva certamente un modello che assicurasse definitivamente la salvezza sua e dell’azienda; ma forse si inserì anche il desiderio di dimostrare, di fronte a questa marea montante di perplessità e di critiche, che la sua idea era tutt’altro che peregrina e che a cinquantacinque anni era ancora capace di un progetto geniale. Ci riuscì.
Nel disegnare la sua nuova vettura, Austin si propose di destinarla alle famiglie di bassa-media borghesia composte da due adulti e due/tre bambini, cioè esattamente a coloro che finora avevano potuto permettersi, nei casi migliori, un cycle-car. La lunghezza complessiva era di 8 piedi e 10 pollici, ossia 2,686 metri (oggi soltanto con la Smart si è raggiunta una dimensione inferiore). Il motore, un quattro cilindri di 696 cc raffreddato ad acqua, sviluppante 10 CV a 2400 giri/minuto, era uno dei più piccoli prodotti fino a quel momento. Sembrava una dettagliatissima miniatura di un’auto vera. Il telaio, a forma di A, aveva la sospensione anteriore a balestra trasversale semi-ellittica; posteriormente, a due balestre longitudinali ad un quarto di ellisse. La trasmissione era ad albero cardanico. Presentava anche particolari di avanguardia: per esempio i freni sulle quattro ruote, anteriori comandati a mano, posteriori a pedale; e persino l’accensione elettrica (dal 1924). Era dotata di un cambio a tre marce più retromarcia, e di un parabrezza in due pezzi. Robusta e praticamente indistruttibile, era realizzata con i materiali migliori, a somiglianza della Ford T cui la accomunavano altri particolari, come quello di rivolgersi ad un mercato di “motoristi marginali”, e di creare dietro di sé una vera e propria leggenda. Fu commercializzata inizialmente con una carrozzeria aperta a quattro posti, l’open tourer “Chummy”, che divenne il modello base, venduto a 225 sterline, a cui si affiancarono ben presto altre versioni, come il saloon (berlina) e il coupé. Si diceva che consumasse circa quanto un accendino: un bel complimento, a fronte di un effettivo consumo di 1 gallone (circa 4,5 litri) ogni settantacinque miglia (circa 120 km).
La Austin fece la sua prima uscita ufficiale all’Olympia Motor Show del novembre 1922, e furono migliaia le persone che vi si affollarono intorno, chiedendosi non solo se avrebbero potuto permettersela oppure no, ma soprattutto se si trattava di una vera macchina, o di qualcosa che si sarebbe rotto alla prima uscita. Pochi, nei primi giorni, si arrischiarono all’acquisto. Finché a comprarla non fu uno studente universitario di Cambridge: fu la svolta che cambiò la storia. In una società rigidamente organizzata sulla divisione tra le diverse categorie sociali, la decisione del benestante studente fu il sigillo, la dimostrazione che la piccola Austin era una vettura vera, degna della massima considerazione.
La produzione della Seven si avviò subito su grandi numeri; nel giro di poco tempo la cilindrata fu portata a 747 cc (56 x 76,2 mm di alesaggio e corsa), mentre il peso passava da 355 chilogrammi a 457. Il prezzo del modello Tourer, a quattro posti con capottina in tela, scese fino a 165 sterline. Una motocarrozzetta o un cycle-car costava poco meno, e per una somma tra le 20 e le 50 sterline in più ci si poteva accaparrare una vera automobile. Questo spiega l’immediato straordinario successo della Seven, che fece da traino all’espansione della Austin: 25.000 vetture costruite nel 1926, 50.000 nel 1933, un primato che pose per quell’anno la casa di Longbridge alla testa dell’industria automobilistica britannica. A spiegare il favore che incontrò da subito la vettura fu anche l’originalità del progetto. Né la Bébé Peugeot, d’anteguerra, né la Quadrilette, sempre della Peugeot, commercializzata nel dopoguerra, avevano goduto di un simile gradimento: troppo forte la sensazione che si trattasse di versioni aggiornate di un triciclo. La Seven invece era una vera macchina, e questa impressione era accentuata dal fatto che era tutt’altro che facile da guidare. La geometria dell’assale posteriore fu definita “bizzosa”; affrontare una curva, anche a velocità non alte, o magari trovarsi su un terreno accidentato, significava quasi sempre dover padroneggiare un violento sovrasterzo. I freni, come spesso succedeva sulle vetture di quel tempo, funzionavano sì e no. Per non parlare della frizione: il gioco del pedale, tra innesto e disinnesto, era di poco superiore a “un quarto di pollice”, ossia sei millimetri, non molto per la verità. Nonostante questo, molte migliaia di persone impararono a guidare sulla Austin Seven, e, infatti, era diffuso il detto che se si riusciva a guidare la Seven si poteva guidare qualunque cosa. Nel 1927 il 70% delle utilitarie circolanti in Gran Bretagna erano Austin Seven; nel 1928 ne erano già state costruite 60.000, di cui 10.000 destinate all’esportazione. I prezzi continuavano a scendere: nel 1929 la tourer era offerta a 130 sterline; per altre dieci si poteva ottenere una berlina super lusso, rivestita di vera pelle e con tettuccio scorrevole. La produzione, invece, saliva vertiginosamente: con un organico di poco superiore agli ottomila operai, venivano prodotte, nel 1930, circa 1000 vetture alla settimana. Naturalmente, non tutte queste vetture erano Seven, poiché la Austin stava saggiamente affiancando al suo modello di punta molti altri modelli. Anzi, moltissimi: si calcolò che nel 1937 la gamma Austin offriva 44 vetture diverse, su nove differenti pianali, e combinando colori, carrozzerie e optional si arrivava ad una offerta di 333 automobili diverse!
Nel 1933 uscì la Seven a quattro marce, una rivoluzione. In realtà non molti se ne accorsero, perché il nuovo cambio era di poco diverso da quello vecchio; si cominciò a sentire una certa differenza soltanto nel 1934, con la terza e quarta sincronizzate. I miglioramenti si susseguirono negli anni; nel 1937 fu la volta della New Ruby Saloon, affiancata dalla due posti, dalla Tourer e dal cabriolet Pearl. Le prestazioni erano sensibilmente diverse: dai 10 CV a 2400 giri/minuto della Seven del 1923 la New Ruby sfoggiava 17 CV a 3800 giri/minuto, una velocità di crociera di 50 miglia all’ora (80 km/h), una velocità massima di 55 m.p.h. (quasi 90 km/h), e un’accelerazione da 0 a 80 km/h in 31 secondi.
La Seven continuò ad essere prodotta fino al 1938. Nei suoi diciassette anni di produzione fu anche costruita in Francia dalla Rosengart, in Germania da una fabbrica che la battezzò Dixi, in Giappone dalla Datsun. Nel 1930 nacque anche l’American Austin, poi Bantam, che vendette complessivamente 23.000 vetture. La produzione in Gran Bretagna, invece, ammontò a circa 290.000 unità. Mica male per una vettura che era stata guardata all’inizio con malcelato disprezzo e considerata niente più di un giocattol